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Programmi europei e neoliberismo. La miopia di movimento.

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A partire dalla fine dei tardi anni ’70 giunge a configurarsi come pienamente strutturata l’era neoliberista. Tale ideologia si sostanzia sulla fiducia (o meglio fede) nel libero mercato come unico strumento capace di portare sviluppo e benessere e traghettare il mondo intero fuori dalle malie del socialismo reale. Il neoliberismo si ingenera all’interno di un percorso complesso che, partendo dalla teorizzazione delle “porte aperte” iniziata dagli USA all’indomani della vittoria del secondo conflitto mondiale, si traduce poi in quel poderoso sforzo tecnico-politico che sarà il processo di integrazione globale del libero scambio, meglio nota come “globalizzazione”.

Il neoliberismo è divenuto nel tempo l’unico elemento teorico e tecnico a disposizione dei governi occidentali per tracciare la rotta della parte economicamente più avanzata del globo. Dopo lo spartiacque storico del 1989 e la caduta del Muro non c’è stato nessun altro contraltare, vero o presunto, alla teoria del libero mercato. Accantonando per ora il ragionamento, pur necessario e interessante, sull’evoluzione del resto del mondo circa le “conquiste economiche”, si ritiene utile concentrarsi sulla sola Europa e sulla matrice schiettamente liberista che ne ha segnato la nascita.

Ora, prima di addentrarci nella trattazione, è d’obbligo una precisazione: il neoliberismo, così come ogni altra teoria socio-economica, quindi politica, diviene imperante nel momento in cui è funzionale al modo di riproduzione capitalista. Il capitalismo non nasce ieri, come non è nato negli anni del boom post-bellico: esso ha una storia lunga e per evitare di strologare su date e momenti di nascita, basta capire quali sono i capisaldi sui quali esso si regge: la proprietà privata (in senso lato) e lo sfruttamento del lavoro in termini di realizzazione di plusvalore. Per quanto possa sembrare didattico questo passaggio, è sempre bene tenere presente i fondamentali e ogni tanto rinfrescare la memoria, onde evitare di confondere lo strumento con la volontà che ne intenziona gli effetti.

Il neoliberismo è quell’ideologia, oggi dominante, che meglio di altre ha favorito l’imporsi del modo di riproduzione capitalista come l’unico e il solo possibile. Anche quando in questi anni il neoliberismo sembra scricchiolare e viene criticato finanche in ambienti fino a ieri insospettabili, non dobbiamo credere che con una sua ipotetica uscita di scena ci potremmo sbarazzare anche del capitalismo. Chi pensa ciò o è un assoluto sprovveduto o, peggio, è un assoluto stolto! Se è vero come è vero che anche per il premio Nobel Joseph Stiglitz il mito del libero mercato era bello che finito il giorno in cui il governo dello Zio Sam è intervenuto per salvare la finanza dalla bancarotta, sfatando quindi l’idea del “mercato che si autoregola”, ciò vuol solo dire che si è aperta una nuova stagione del capitale. Non è un caso che all’indomani del tonfo finanziario più grosso della storia della modernità si sia cominciato a pensare ad una ristrutturazione dell’architettura della governance e del rapporto tra pubblico e privato. In barba a tutti i principi neoliberisti si è tornati a rispolverare l’aiuto di stato di keynesiana memoria con un occhio attento alla finanza.

Tra gli USA e l’UE quelli che restano meno ipocriti sono sempre i primi – basti guardare al nome dei programmi di rifinanziamento della produzione messi in campo con la scusa della decarbonizzazione industriale per assaporare il livello di schiettezza. Oltre oceano il programma varato dal governo con il benestare della Federal Reseve e la benedizione dei FMI si chiama “Green New Deal”, molto roosweltiano come suono, da noi si chiama “Green Deal”. Di là dei significati e dei giochini filologici il senso non cambia: siamo davanti alla più grossa e palese operazione di salvataggio del modo di riproduzione capitalista della storia.

Fatta questa premessa, lunga ma doverosa, possiamo più agevolmente disquisire sul tema centrale di queste righe, cioè la crescente miopia del movimento cosiddetto antagonista rispetto alle tendenze socio-politiche e alle visioni economico-finanziarie degli ultimi vent’anni. Parlo degli ultimi quattro lustri in quanto tale scollamento tra realtà e antagonismo si è fatto più marcato in essi ma le avvisaglie di tale crescente incapacità di leggere le fasi ha cominciato a far capolino dai primi anni ’90. Il prodotto di tale processo è stato quello che passerà alla storia come movimento no-global, che pur nella correttezza dei princìpi, giungeva a mettere in guardia sui pericoli della globalizzazione quando questa era già non solo presente ma stava preparandosi già a mutare da mera infrastruttura commerciale in rete di comunicazione finanziaria. Un ritardo spaventoso che si è spesso concretizzato in tentativi di fermare conferenze e vertici internazionali come se bloccare la ratifica di un trattato annullasse gli accordi già vigenti come prassi. Ammettiamo pure che tali tentativi abbiano una loro valenza mediatica e di denuncia: nel momento in cui giungono fuori tempo massimo la loro efficacia tende a ridursi a una sorta di pantomima. Rimandiamo ad altre analisi già effettuate il chiarimento della posizione di chi scrive.[1] [2] [3]

È su questo ritardo storico che si misura la distanza tra la comprensione del reale e le azioni decisive e significative di un movimento che vorrebbe, nella teoria, essere d’intralcio a qualcosa. Mentre nel recente passato era forse meno semplice procurarsi alcune informazioni e le elucubrazioni teoriche della classe dominante erano questioni poco dibattute, oggi le linee di tendenza per i futuri assetti socio-economici di questa parte del mondo non solo sono esplicite ma vengono messe nero su bianco e pubblicate per comune presa visione finanche sulla Gazzetta Ufficiale. Gli intenti dell’Europa erano tanto chiari ed espliciti che non solo quasi nessuno si è peritato di andarci a dare un’occhiata ma, addirittura, si preferiva prendere informazioni dai giornali piuttosto che cercare le informazioni lì dove venivano bellamente pubblicate in tempo reale.

Il “Bollettino Europeo” ad esempio, pubblicato in 24 lingue (italiano compreso) esce regolarmente e annuncia tutte le decisioni e i dibattiti in corso tanto al Parlamento Europeo quanto nella Commissione dove le linee guida dei fondi strutturali e le loro mutazioni nel tempo si possono leggere con una chiarezza disarmante. Tra la programmazione 2007-2014, quella 2014-2020 e quella 2021-2027, si possono seguire, con una certa limpidezza, il passaggio da un’impostazione in chiave di integrazione economica delle aree depresse, con precise linee guida incentrate sulla spinta ad aprire anche le zone più recondite al mercato, ad un atteggiamento che dà quasi per scontato che il mercato di riffa o di raffa è giunto dove doveva arrivare ma non in chiave di semplice opportunità di vendere o svendere qualcosa sulla piazza globale: vi è giunto come eradicazione culturale e reinnesto di una matrice ideologica – l’homo oeconomicus.

Nelle riforme di apertura al privato di ciò che prima era statale e costituiva il welfare in senso lato – salute, trasporti e istruzione – il collegamento alle dottrine neoliberali è tuttavia indiretto e ibrido. La natura ibrida dell’applicazione è da intendersi tale in quanto il neoliberismo, almeno nella sua versione da manuale, non ammetteva alcun interventismo statale. Più che una trasformazione dello stato in agente economico esso auspicava, molto più semplicemente l’eliminazione totale di ogni ingerenza statale nella società. I fautori di questa visione sono stati Von Heyek e Friedman: il primo ha portato la teoria marginalista al suo massimo sviluppo andando a incastonarla in una generalizzazione macroeconomica, il secondo ha operato le prime sperimentazioni sul campo sfruttando le occasioni ghiotte delle dittature sudamericane.

Al contrario, le riforme avviate in Europa e poi fatte adottare agli stati membri non hanno fatto economia di interventi legislativi e amministrativi, con annesse grosse operazioni di investimenti pubblici, né hanno rinunciato a utilizzare le preesistenti agenzie governative per programmare, organizzare e attivare strategie di intervento indiretto nel tessuto socio-culturale, pur mutandone criteri gestionali e obiettivi. Indiretto perché le azioni e i programmi di applicazione delle strategie sono passate attraverso una forte mediazione, fra agenti socio-economici e politici come lo stato, il mercato, le comunità o le famiglie, il terzo settore e le grandi fondazioni filantropiche (leggi banche o big corps).

Ciò a riprova che il neoliberismo va benissimo come espediente narrativo per propagandare le bellezze implicite nella libera scelta mercatale, una dottrina utilissima a imbambolare generazioni di individui fino a indurli alla certezza assoluta che non v’è altro mondo possibile fuori dal mercato. Intanto però i trasferimenti dal pubblico al privato a mezzo di progetti di riammodernamento infrastrutturale si facevano sempre più cospicui e le esternalizzazioni dei servizi passavano dalla dismissione dei mezzi pesanti per le lavorazioni stradali degli enti pubblici alle ditte di pulizia delle latrine del comune più sperduto dell’arco alpino.

La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”, scriveva Hegel. Il che equivale a dire che riusciamo a comprendere qualcosa solo quando quel qualcosa si sta dileguando ma, in una interpretazione contraria, ci accorgiamo del mutamento quando questo è oramai manifesto e inesorabile. Di fatto quando ci siamo accorti che qualcosa “stava cambiando” in realtà era già tutto in mano alla gestione aziendalistica. Dalle prime privatizzazioni degli anni ’90 al fatto di accorgersi che qualcosa non quadrava sono passati più di dieci anni prima di vedere qualche analisi sui fenomeni in atto. È infatti del 2007 il libro di Barucci e Pierobon “Le privatizzazioni in Italia”: eppure già nel 2001 uscì un volume intitolato “Libro bianco sulle privatizzazioni” a cura del Ministero del Tesoro.

A livello di movimento uscivano documenti circa l’autoreddito e la ridefinizione degli spazi sociali, si cominciava a parlare di gruppi di acquisto solidali, di legalizzazione della canapa, imperava la narrazione eroica del compagno Marcos in Chiapas. Insomma il mondo cambiava e il movimento guardava da tutt’altra parte. Anche quando i programmi europei si facevano sempre più espliciti nel loro imporre gli strumenti finanziari come innovazione necessaria e lo sviluppo di economie di mercato come condizione base per l’accesso ai finanziamenti, il mondo antagonista seppure da un lato dava inizio ad una interessante stagione di mobilitazione contro le grandi opere (patto di mutuo soccorso), dall’altro non riusciva più ad interpretare il suo presente, limitandosi a biascicare slogan e rifarsi una cultura citando autori “post” qualcosa.

Abbeverandosi alla fonte della peggiore post-modernità, buona parte del movimento buttava via bimbo acqua sporca e bacinella, nel tentativo maldestro e raffazzonato di superare il ’900, sperando di essere nel giusto mettendosi di traverso a qualunque cosa passasse nella speranza di essere notato. Il capitalismo assumeva nuove aggettivazioni, bio-capitalismo, turbo-capitalismo, ecc. e, pur rimanendo graniticamente coerente a sé stesso, fagocitava e sussumeva tutto quello che poteva rappresentare nicchie di domanda inespresse e nicchie culturali bisognose di quindici minuti di gloria.

I fondi strutturali della programmazione Horizon 2014-2020 inglobavano uno dei concetti di integrazione mercatale più flessibili e poliedrici di sempre, le strategie di specializzazione intelligente, (S3 o Smart Specialization Strategies). Teorizzate da Domique Foray, hanno avuto la capacità di rendere compatibile ogni piccola specificità territoriale con la sua messa a valore commerciale. Questa strutturazione strategica ha guidato i FESR in una delle stagioni più critiche dell’occidente, il post 2008, in piena crisi. Un sistema di piani e programmi che hanno dato un’iniezione di liquidità a livello locale per sostenere gli investimenti a livello sovranazionale, di fatto accelerando, attraverso la creazione di debito da un lato e l’obbligo del ripianamento dell’altro, il processo di svendita di servizi e territori al peggior offerente.

Negli stessi anni si parlava di crisi, di debito, di audit del debito e in pochi percepivano il pericolo incombente. Si urlava “Noi la crisi non la paghiamo” o “Siamo il 99% e siamo in credito”, si disquisiva di precariato cognitivo e intanto le stesse università, delle quali si occupavano le aule per salvare il diritto all’alta formazione, stipulavano contratti con privati o sgomitavano per accaparrarsi bandi di ricerca finanziati dal programma Horizon. Si lavorava nei centri di ricerca e nei dipartimenti per trovare strategie di attuazione e applicazione dei FESR e studiare ibridi tra la struttura economica statunitense e quella dell’Unione Europea, si studiavano i clusters industriali dello Zio Sam per importarne i meccanismi nel Belpaese. Mentre il capitalismo accelerava non avendo ostacoli sul suo cammino, il movimento si accapigliava su neo-lingue e politically correct.

Le strategie europee inchiodavano gli stati membri alle loro responsabilità, perché quelle politiche le avevano votate gli europarlamentari di ogni schieramento ed erano poi state ratificate senza troppa pubblicità da tutti i governi, mentre ci si baloccava tra forconi, popoli viola, vaffa day, bunga bunga e la micro agricoltura biodinamica. Approvavamo il MES e nello stesso tempo accettavamo come una boccata d’ossigeno il quantitative easing indebitandoci per i prossimi ottant’anni. Le città diventavano smart, la gentrificazione partiva dalle bottegucce stile hipster ma noi, duri come il porfido, vedevamo la gentrificazione solo nei centri commerciali. Le piccole attività artigianali sparivano dal centro città, arrivavano i franchising di ogni tipo ma per noi la lotta era sempre altrove e sempre in posti esotici e mediorientali.

Sognando l’assalto al palazzo che mai giungeva, di corteo in corteo e di petizione in petizione ci siamo inventati modi creativi per stare al mondo e nel mercato senza darlo a vedere. Inventandoci sul concetto di “solidale” un mondo di commercio a lungo raggio però parlando sempre di chilometro zero, la sussunzione ci ha risucchiati in una spirale di compatibilità mercatale ma noi ancora non ce ne siamo accorti. Meno ce ne accorgevamo e più la programmazione europea parlava di mercato, finanza e innovazione. Fino ad oggi, quell’oggi nel quale il capitalismo si tinge di verde e noi facciamo fatica a controbattere che quel verde è solo il caro vecchio colore dei soldi!

J. R.

NOTE

  1. Cfr. JR, “Cosa resta del corteo”, Umanità Nova, 2015, url: https://umanitanova.org/cosa-resta-del-corteo/

  2. Cfr. JR, “Generazione Genova”, Umanità Nova, 2016, url: https://umanitanova.org/generazionegenova/

  3. Cfr. JR, “Banale vs Complesso: Banalizzazione della complessità nella crisi di movimento”, Umanità Nova, 2021, url: https://umanitanova.org/banale-vs-complesso/

  4. Fondi strutturali https://ec.europa.eu/regional_policy/it/information/legislation/regulations/2007-2013/

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